Sul nuovo almanacco del cinema – MicroMega 6/2011, Paolo Sorrentino, in conversazione con Malcom Pagani, parla della propria professione, naturalmente, ma anche di Napoli, propria città d’origine, e di Roma, città d’adozione.
Perché Sorrentino lasciò la città in cui è nato?
A 36 anni non avevo mai compiuto una scelta di indipendenza che fosse una. Sempre nella stessa casa, dal primo giorno. Mi trascinavo pigramente ancorato a legami violenti, quasi ancestrali. In più Napoli non è un luogo normale. Devi affrontare la vita con una dose di coraggio non indifferente e io, confesso, sono sempre stato un ragazzo pauroso.
Napoli spaventa?
Purtroppo esiste una percezione di diffusa criminalità. Senti che ti può succedere qualcosa in ogni momento. Una sensazione di precarietà che, dopo aver avuto i miei figli, si è trasformata in angosciosa ansia. La tranquillità abita altrove e io avevo finito per rinchiudermi in casa e non vivere più la città. L’impostazione di mio padre Salvatore al riguardo era chiara: «Paolo, mi raccomando. Di notte, ai semafori, non ci si ferma».
Torna spesso?
Quasi mai. Quando scendo a Napoli mi assale la malinconia, ma è più un vizio che un vero sentimento.
Si spieghi meglio.
Mi piace frequentare il piano della nostalgia e quando arrivo, per contratto, devo sentirmi malinconico. È un’allucinazione indotta, quasi psichedelica, nulla di reale.
A Roma sta bene?
Molto, ma per viverci è necessaria saldezza d’animo. Se non sei solido può esser destabilizzante. È strano perché, pur avendola toccata molte volte nell’adolescenza, non ho mai pensato neanche per un attimo di trasferirmici. Della mia vecchia città, se proprio devo essere analitico, mi manca lo humour. A Napoli il senso dell’umorismo tende agguati ovunque. È democratico. Contagia sia l’aristocratico che il cameriere. Il dialetto fa ridere e come ogni lingua antica ha il dono della sinetsi.
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