lunedì 22 agosto 2011

La letteratura che va dove La Porta la lingua

Prendendo spunto dal libro di Igiaba Scego La mia casa è dove sono, sul Sole 24 ORE di ieri Filippo La Porta è tornato a parlare di “letteratura migrante. È tornato, perché il critico più volte si è espresso sull’argomento, come nel recente saggio Meno letteratura, per favore!. In particolare sulla lingua degli scrittori migranti, La Porta è intervenuto nel 2007 a pordenonelegge.it, nell’ambito degli incontri ideati da Enzo Golino e riuniti sotto il titolo-domanda “Che lingua fa?”.
Di seguito riportiamo il resoconto dello specifico dibattito “La lingua dei migranti”(1), a cui, insieme con La Porta, hanno partecipato Amara Lakhous e Daniel Samba.

La lingua dei migranti

Di diverso tipo di commistioni si sono occupati Amara Lakhous, Filippo La Porta e Daniel Samba, trattando “La lingua dei migranti”.
La Porta è stato tra i primi a occuparsi di libri di migranti. È questo un fenomeno nuovo per il nostro Paese, dove solo da qualche anno gli stranieri cominciano a pubblicare direttamente in italiano, ed è di vecchia tradizione, invece, in Francia e in Inghilterra, per lo specifico passato coloniale.
Gli immigrati che abitano in Italia – evidenzia il critico – fanno parte dalle grandi ondate degli anni Novanta(2), provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Africa, dal Medioriente, dall’Estremo Oriente; sono persone che vivono un’esperienza traumatica, una sorta di schizofrenia derivante dal continuo attraversamento di frontiere espressive, dall’abitare idiomi diversi, dal pensare nella propria lingua e lo scrivere, il descriversi in una lingua adottiva.
Da quando anche in Italia si è assistito ai primi episodi di “letteratura migrante”, La Porta si è reso conto, a poco a poco, che bisogna evitare una tentazione, quella di un’aspettativa forte, di rivitalizzazione della nostra lingua. Egli stesso aveva questa fiducia troppo ambiziosa, eccessiva, in un certo senso abusiva, e sperava in una rigenerazione del nostro basic quotidiano, un linguaggio ormai televisivo, omologato e impoverito. Cercava allora, nei romanzi dei migranti, gli errori, quelle imperfezioni capaci di risvegliare una lingua; si augurava di imbattersi in una scrittura indocile e invece trovava un italiano spesso neutro, a volte inerte, sempre molto scolastico.
Ciò detto, La Porta riconosce che, quello degli scrittori migranti, rimane un fenomeno di grande interesse, con romanzi brulicanti di storie, a cominciare proprio dal libro di Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, accostabile, a suo parere, non a Gadda, a cui tante volte è stato paragonato (piazza Vittorio, d’altro canto, è vicina a via Merulana) ma a Monicelli, alla commedia, col suo tono narrativo lieve e ironico.
Degni di essere ricordati sono inoltre Madre piccola, dell’italo-somala Cristina Ali Fahra; Regina di perle e fiori, dell’italo-etiope Gabriella Ghermandi; Amiche per la pelle, di Laila Wadia, indiana d’origine e triestina d’adozione; L’estate è crudele, dell’iraniano Bijan Zarmandili. Infine La mano che non mordi, dell’albanese Ornela Vorpsi, forse l’autrice più singolare, la quale in piccola parte riesce a intaccare la nostra lingua: leggendola si sente un ritmo diverso, come un’eco della sua sintassi originaria; presenta degli accostamenti lessicali inaspettati, dal «sentimento aguzzo di dolore», che fa pensare alle montagne dell’Albania, a qualcosa di tagliente, ai bambini «frangibili»; è piena di punte espressive, derivanti anche dalle dissonanze.
Tutti questi scrittori offrono inoltre molteplici spunti per una riflessione attorno al concetto di identità. Possiedono, infatti, più appartenenze, patrie, lingue: l’autrice italo-somala afferma di avere due religioni, di essere imperfettamente bilingue. Il racconto di queste identità multiple è estremamente degno di attenzione, non solo come fenomeno sociologico, ma come discorso che ci parla di “noi”, ugualmente senza patria, sradicati dalla nostra tradizione.
Come insegna Zygmunt Bauman(3), difatti, le nostre identità di sempre sono oggi in “liquefazione”, disfatte e precarie; si fa strada allora una condizione diversa, una “identità a palinsesto” in cui ogni cosa è sempre da ricominciare, secondo un perenne riprovare e lasciar andare. È questa, per lo stesso La Porta, la condizione più verosimile della contemporaneità, dove l’identità meticcia appartiene a noi tutti, è quel destino della globalizzazione che deve farci stringere fratellanza con ogni migrante. Siamo tutti nomadi, impegnati a cercare nuovi radicamenti, e con Virgilio possiamo dire allora: «Ma noi siam peregrin come voi siete» (Dante, Purgatorio, II, 63).
Dal 1995 a Roma è Lakhous, algerino di nascita, giornalista e scrittore, che ha pubblicato in Italia per le edizioni e/o Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, con cui ha vinto il premio Flaiano per la narrativa 2006 e il premio Racalamare – Leonardo Sciascia 2006.
Secondo Lakhous, nei pareri critici verso gli scrittori migranti bisogna evitare forme di buonismo: un qualsiasi individuo che scelga di scrivere in una data lingua dev’essere giudicato, infatti, secondo i parametri di quella. Dal suo canto, si definisce cittadino non dello Stato, ma «della lingua italiana»: è nel nostro Paese da dodici anni e linguisticamente si sente ancora un «bambino».
Sarebbe stato più semplice, per lui, andare in Francia, ma consapevolmente ha rifuggito un rapporto conflittuale, derivante dal passato coloniale. L’incontro con l’italiano, per Lakhous, è stato invece importante e si è mosso su due piani: quello che vedeva la nostra lingua come strumento di sopravvivenza e quello che tuttora la vede come strumento creativo. Parlando italiano, l’immigrato ha la possibilità di acquistare un minimo di potere; dominandolo bene, ha inoltre modo di mettere in crisi un’identità stereotipata.
Dal punto di vista creativo, Lakhous si avverte come ricco di un duplice patrimonio. Strutturalmente si sente arabo, non entra “a mani vuote” nella nostra lingua: quando scrive italiano, scrive in realtà il suo arabo tradotto in italiano, e in un certo senso “torna” all’Italia, per le radici arabe che nel nostro Paese ci sono.
Il suo stesso ultimo romanzo è stato concepito e scritto originariamente in arabo, uscito in Algeria e Libano nel 2003 con il titolo Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda. Data però l’ambientazione romana, ha deciso poi non di tradurlo, ma di riscriverlo in italiano, eventualmente anche con aggiunte, senza preoccuparsi di riprodurre fedelmente il testo originale, come dimostra già il titolo diverso (Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, appunto). Il risultato è che il testo originale arabo è in un arabo italianizzato, essendo l’ambientazione italiana; e viceversa, quello italiano è in un italiano arabizzato. Il privilegio avuto, racconta Lakhous, è stata la possibilità di lavorare autonomamente nella fase di riscrittura, senza un editor che lo ammonisse: «In italiano così non si dice», salvando dunque l’originalità del risultato.
Diversa è la storia di Samba, camerunese che studia a Gorizia Relazioni Pubbliche e conduce a Udine un programma in friulano, “Friûl piturât di neri”, per l’emittente radiofonica Radio Onde Furlane.
Arrivato in Italia nel 2002, ha portato con sé il proprio bagaglio plurilingue, proveniente com’è da una minoranza anglofona del Camerun, ma parlante anche francese. Nel nostro Paese ha iniziato a imparare l’italiano e, in un centro di formazione professionale di Cividale, ha infine avuto l’incontro col friulano.
Samba ha cominciato col familiarizzare con alcune parole e ha superato i vari errori iniziali con un grande amore per la lingua friulana. Grazie alla propria naturale attitudine, ha presto dimostrato la spiccata sensibilità linguistica che gli consentiva di riconoscere anche le differenze di pronuncia, rispetto per esempio all’accento carnico. A Udine ha cominciato poi a mettere in pratica quanto imparato, cercando di accattivarsi le persone parlando friulano: è stato allora che amichevolmente lo si è iniziato a chiamare “furlan piturât di neri”, “friulano dipinto di nero”, soprannome nato come un gioco, poi diventato l’idea di base della sua trasmissione.
Nel programma di Samba, il momento più originale di ogni puntata, dopo i consueti approfondimenti di cronaca, è una rubrica sui proverbi e sui modi di dire della lingua friulana, di cui il giovane camerunese è un vero appassionato: l’autore se ne va in giro per interviste, testando così la competenza dei friulani circa la loro lingua.

Note 
(1) Bozza tratta da Manuela Lo Prejato, “Che lingua fa?” – Testimonianze da “pordenonelegge.it”, 2007 [“Bollettino di italianistica”, IV, 2007, 2, 104-120]
(2) Cfr. Hans Magnus Enzensberger, La grande migrazione, 1993 (Torino, Einaudi)
(3) Zygmunt Bauman, Modernità liquida, 2003 (Roma-Bari, Laterza)

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