giovedì 9 giugno 2011

Letteratura, musica e teatro a Napoli: progressi o regressi in cinque anni?

Nel 2009, per i tipi berlinesi di Reimer, è uscito un volume su Napoli, indagata dal punto di vista culturale, antropologico, politico, sociale e urbanistico, dal 1400 al presente. Si riporta qui di seguito la traduzione in italiano del paragrafo sulla letteratura, la musica e il teatro contemporanei (un po’ datato – i riferimenti risalgono al 2006 – ma altrimenti non facilmente reperibile):

La cultura, a Napoli, non vive un periodo facile, almeno dall’inizio del nuovo millennio e secondo la percezione dei suoi protagonisti. Alla fine di ottobre 2004 il filosofo Aldo Masullo, dalle pagine del Mattino, il principale quotidiano della città, ha lanciato un appello significativo, «Salviamo Napoli», che ha riscosso una vasta eco mediatica ed è diventato lo slogan del cosiddetto, controverso Manifesto degli intellettuali: gli uomini di cultura partenopei hanno mosso un’accusa contro il degrado della società civile – che si rifletterebbe anche in ambito creativo – e contro il mancato coinvolgimento degli intellettuali nelle questioni fondamentali per la città.
La decadenza di Napoli, lamentata ogni giorno dai mezzi di informazione, si rispecchia, a livello culturale, fra le altre cose nell’assenza di una società letteraria: gli scrittori si dichiarano privi di luoghi di aggregazione, costretti a scelte solitarie, individuali, nell’impossibilità di costituire una rete solida di comunicazioni. I momenti d’incontro sono pochi: la fiera annuale dei libri, Galassia Gutenberg, negli ultimi anni ha mostrato un declino progressivo; l’unico evento di ampia portata che sopravvive, il Premio Napoli, si svolge ogni settembre tra numerose, immancabili polemiche.
Napoli è una città intricata, già nell’organizzazione topografica: un reticolo di vie, quartieri cosiddetti a rischio che si incastrano e si intrecciano alle zone borghesi, a quelle dei ricchi; una città che si può amare oppure odiare, ma che per un verso o per l’altro – come sottolinea il critico Generoso Picone nel suo libro emblematico I napoletani (2005) – si fa raccontare. Gli scrittori nati, vissuti e non allontanatisi da Napoli oggi, però, non sono molti: simbolo di tutti Raffaele La Capria, che, trasferitosi nella capitale, già negli anni Ottanta ha scelto la distanza come miglior mezzo d’osservazione della città natale (L’armonia perduta, 1986). Addirittura contro la “napoletanità”, intesa come obbligo e menomazione, ha scritto Fabrizia Ramondino, sulla rivista L’Indice del settembre 1999, nel suo Manifesto contro la definizione di ‘scrittori napoletani’. Lontano da Napoli, Erri De Luca, dalla fine degli anni Ottanta (Non ora, non qui, 1989) a oggi (In nome della madre, 2006), racconta spesso di una città la cui immagine si stempera nel ricordo, nel fiabesco.
A Napoli, la sua storia e i suoi luoghi fanno invece esplicito riferimento Ermanno Rea (Mistero napoletano, 1995; La dismissione, 2002) e Domenico Starnone (Via Gemito, 2000). Una Napoli misteriosa costituisce l’esordio di Elena Ferrante (L’amore molesto, 1999), così come misteriosa è la figura della stessa scrittrice, della cui identità ed esistenza nessuno riesce ad avere certezza. Città violenta, del disagio, della corruzione è quella che prende corpo nei romanzi di Peppe Lanzetta (da Una vita postdatata, 1991; a Ridateci i sogni, 2002), Giuseppe Ferrandino (Pericle il Nero, 1993; Il Rispetto (ovvero Pino Pentecoste contro i guappi), 1999), Giuseppe Montesano (da A capofitto, 1996; a Magic people, 2005), Michele Serio (da Pizzeria inferno, 1994; a Napoli corpo a corpo. Manuale di sopravvivenza metropolitana, 2006), Antonio Franchini (da L’abusivo, 2001; a I gladiatori, 2005), Massimo Cacciapuoti (da Pater familias, 1998; a L’abito da sposa, 2006), Maurizio Braucci (Mare guasto, 1999; Una barca di uomini perfetti, 2004), Andrea Santojanni (Sono solo mostri, 2003), Valeria Parrella (Mosca più balena, 2003; Per grazia ricevuta, 2005). In particolare con quest’ultima, grazie al grande successo di critica ottenuto e alla candidatura nel 2005 al Premio Strega, le storie di Napoli hanno attirato fortemente su di sé l’attenzione. Portavoce femminile della città è anche Antonella Cilento, scrittrice e insegnante di scrittura, che dall’esordio (Il cielo capovolto, 2000) all’ultimo lavoro (Napoli sul mare luccica, 2006) ha portato a termine un’aspra denuncia della situazione culturale a Napoli, nel libro dal titolo paradigmatico Non è il paradiso (2003). In tale opera l’autrice fotografa la realtà cittadina a partire dagli anni Novanta: un periodo di grandi speranze per un cambiamento sempre desiderato ma puntualmente fallito. Il fallimento, secondo la Cilento, è causato da una specie di malattia sociale diffusa a tutti i livelli, un atteggiamento manipolatorio, autoconsolatorio, distruttivo, che tiene Napoli in un eterno stallo culturale, politico ed economico, favorendo la sopraffazione piuttosto che la collaborazione reciproca. Per questo motivo, la scrittrice immagina una città popolata da demoni, ricollegandosi all’affermazione di Goethe, secondo cui Napoli sarebbe appunto un paradiso abitato da diavoli. «L’autoreferenzialità (parlare sempre di se stessi e sempre bene), il lamento cronico (se va male è colpa degli altri, mai nostra), l’assenza di una coscienza civile (la cosa pubblica è di un Altro, di un oppressore, e quindi possiamo distruggerla e rapinarla) sono estese su ogni piano – sostiene la Cilento –, inclusa la piccola editoria, le assunzioni nei quotidiani, le relazioni culturali, e su tutto domina l’assenza completa di una qualsiasi mentalità imprenditoriale».
Caso letterario e politico-sociale è stato infine Gomorra (2006), il romanzo in cui Roberto Saviano, unendo narrazione e reportage giornalistico, ha descritto la camorra, il suo “impero economico” e il suo “sogno di dominio”.
Una medesima implosione negativa e una stessa assenza di punti di riferimento è avvertita dai musicisti partenopei. Anche in quest’ambito le energie sono numerose, potenti, ma disperse, non sfruttate. Si rimpiangono i tempi del Neapolitan Power: più che una scuola, un modo di suonare che tra gli anni Sessanta e Ottanta ha unito musicisti dal calibro di Joe Amoruso, Enzo Avitabile, Edoardo ed Eugenio Bennato, Tony Cercola, Cervello, Città frontale, Pino Daniele, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Enzo Gragnaniello, Musica Nova, Napoli Centrale, Osanna, James Senese, Uno, Rino Zurzolo. Un’avanguardia in collegamento con gli americani residenti a Napoli: jam session a base di rock e jazz che attiravano giovani dal nord Italia, volenterosi di imparare alla “scuola napoletana”, i quali poi scoprivano, magari delusi, che la scuola era per strada. Una congiuntura felice, finita drammaticamente nel 1984, con una bomba negli uffici americani di calata San Marco e il conseguente distaccamento degli U.S.O. (United State Office).
Un periodo che è poi sfociato, all’inizio degli anni Novanta, nella nascita delle posse, gruppi musicali d’ispirazione politica e sociale vicini al rap americano. Bisca, 99 Posse (in seguito Bisca99Posse), Almamegretta hanno costituito il primo vero esperimento esclusivamente napoletano: band metropolitane legate alla contestazione giovanile e ai centri sociali, primo fra tutti quello occupato e autogestito di Gianturco, Officina 99, di cui i 99 Posse sono l’espressione originaria. Nei riguardi degli esponenti tradizionali del Neapolitan Power, le posse si sono collocate inizialmente in atteggiamento di conflitto; grazie soprattutto alla volontà degli Almamegretta, la rottura si è poi sanata in una collaborazione proficua.
Oggi tutto ciò è morto, è avvenuto un collasso. Tutte le posse si sono sciolte o presentano formazioni diverse, con diversi intenti, con alcuni ex componenti che nel frattempo provano percorsi individuali (valga per tutti Raiz, ex cantante simbolo degli Almamegretta). Anche i vecchi animatori del Neapolitan Power ormai si muovono lungo strade personali: si pensi a Eugenio Bennato, che con la sua Taranta Power guarda molto più al Salento che non alla Campania; a Edoardo Bennato, per i temi delle canzoni ormai più “italiano” che non “napoletano”; Pino Daniele, lontano dal periodo d’oro e più vicino a interessi commerciali. Con il nuovo millennio si è poi assistito all’esplosione e invasione dei neomelodici, artisti che, come esprime già il nome, vorrebbero rilanciare la tradizione melodica napoletana; emerso da tale realtà, Gigi D’Alessio è diventato, a livello nazionale, uno dei simboli della nuova Napoli canora. In una direzione diversa si è mosso Nino D’Angelo, divenuto, invece, il rappresentante di un desiderio di riscatto, attraverso un percorso di crescita che l’ha portato alla fusione della melodia popolare con i ritmi etnici e jazz.
I locali in cui si suona musica dal vivo (Around Midnight, Kestè, Montecristo, Murat, Up Stroke, tra i più noti) ospitano artisti impegnati in progetti originali, di sperimentazione e contaminazione tra pop, jazz, classica, folk, i quali tentano di recuperare gli elementi migliori di ogni tradizione e di creare nuovi punti di riferimento in città. Vengono almeno in mente Joe Amoruso, pianista depositario della precedente scuola; Aldo Farias, chitarrista jazz; Rino Zurzolo, contrabbassista; Marco Zurzolo, sassofonista jazz, che ha al proprio attivo tour estivi anche in Germania. Particolarmente originali sono poi i percorsi, rispettivamente, di Antonio Onorato e Daniele Sepe.
Antonio Onorato, chitarrista, fonde ritmi afro-americani essenzialmente jazz e latino-americani come bossanova e samba con la melodia tradizionale napoletana: crede nella contaminazione tra ciò che si studia e ciò che affiora spontaneamente dalle origini, convinto che sviluppo artistico e sviluppo personale debbano andare necessariamente di pari passo. Onorato, alla ricerca di una musica “mediterranea”, si è fatto conoscere, tra le altre cose, per l’utilizzo della chitarra Synth Yamaha con controllo a fiato, uno strumento difficile che nessuno oltre lui suona, essenziale all’interno delle sue sperimentazioni.
Daniele Sepe, sassofonista, nel suo particolare esperimento jazzistico tenta un recupero di canoni etnici, folk, attraverso l’estemporaneità. Il suo album Vite perdite nel 1994 è stato pubblicato in tutto il mondo dalla berlinese Piranha. Alla fine degli anni Novanta è stato ospite di diverse rassegne di world-music europee, tra cui la Beethoven Kunstenhalle di Bonn.
Spazi di aggregazione più solidi sono invece disponibili per chi ha fatto del teatro la propria vita. Un faro in questo settore, per chi non è amante della tradizione borghese, è il Teatro Nuovo di via Montecalvario, ai Quartieri Spagnoli. “Teatro sopra li Quartieri”, così si chiamava nel Settecento la costruzione dell’architetto Antonio Vaccaro, inaugurata nel 1724 e sede di celebri opere musicali, sotto la direzione, tra gli altri, di Donizetti e Rossini. Il Nuovo è stato il palcoscenico, in seguito, dell’Opera buffa, della Rivista, del Teatro comico, di Di Giacomo, Scarpetta, Sciosciammocca, Totò, Viviani, i De Filippo. Oggi la direzione è affidata a Igina di Napoli e Angelo Montella, che hanno fatto del Nuovo (adesso Nuovo Teatro Nuovo) uno dei luoghi storici in Italia per la ricerca e la sperimentazione teatrale, grazie ai nomi, tra gli altri, di Giorgio Barberio Corsetti, Renato Carpentieri, Carlo Cecchi, Pippo Delbono, Leo De Berardinis, Mario Martone, Enzo Moscato, Antonio Neiwiller, Annibale Ruccello, Toni Servillo. Il Nuovo si vuole porre come tentativo unificante all’interno di una metropoli parcellizzata, con il desiderio, anche, di recuperare i ragazzi a rischio del quartiere. Pratica una politica di prezzi per avvicinare i giovani al teatro e oggi può vantare 1500 abbonati. I progetti che porta avanti si caratterizzano, sì, per le radici che mantengono nella storia, ma soprattutto per lo sguardo che gettano all’Europa, con il contributo di artisti che sono sia maestri sia debuttanti. Tutto ciò che è ricerca, avanguardia, e di cui ora si vedono i frutti in Italia, è passato per il Nuovo tutto ciò che di sperimentale è venuto dal Sud ha avuto qui i suoi natali, in un contesto in cui in città esisteva solo il teatro borghese e non ancora un teatro stabile. Arturo Cirillo, Antonio Latella, Pierpaolo Sepe sono i tre registi portanti del Nuovo: il primo concentrato soprattutto su Scarpetta e Molière; il secondo su Genet e Pasolini; il terzo su Fassbinder, con una collaborazione tacita tra loro, secondo traiettorie diverse ma dialoganti.
Negli anni Novanta anche la Galleria Toledo-Teatro stabile d’innovazione ha aperto i battenti, sotto la direzione di Laura Angiulli, che ha prodotto e ospitato artisti, secondo la stessa politica del Nuovo. La Galleria Toledo, sala sorta accanto al precedente e tradizionale teatro degli anni Ottanta, è stata quindi dedicata ai vari linguaggi dello spettacolo contemporaneo, con un’insistenza particolare su temi di valore umanistico e politico-civile. L’offerta teatrale, cinematografica e musicale proposta durante l’inverno in tale sala prosegue poi durante l’estate negli spazi all’aperto di Villa Pignatelli.
E il teatro stabile è tornato a Napoli nel 2002, al Mercadante, oggi con il comitato artistico di Renato Carpentieri ed Enzo Moscato e la direzione di Roberta Carlotto. Teatro stabile come incrocio di tradizione e contemporaneità, nuovo punto di riferimento per vecchi e giovani, in una città in cui i riferimenti sono tutti da rifondare.

Bibliografia:
Generoso Picone, I Napoletani, Bari, Laterza, 2005.
Lello Savonardo, Nuovi linguaggi musicali a Napoli. Il Rock, il Rap e le Posse, Oxiana, Pomigliano d’Arco (Napoli), 1999.
Sergio Marra (a cura di), Veri movimenti, Napoli, Nuovo Teatro Nuovo, 2006.

Manuela Lo Prejato, Zur gegenwärtigen Kulturszene, 2009 [S. Pisani, K. Siebenmorgen (hrsg. v.), Neapel. Sechs Jahrhunderte Kulturgeschichte, Berlin, Reimer, 511-515]

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