venerdì 10 giugno 2011

Traduzione alla Lettera (Internazionale)


La presentazione di Lettera Internazionale, tenutasi mercoledì presso la Società Dante Alighieri di Roma, è stata l’occasione per approfondire uno dei temi cari alla rivista, quello della traduzione. Tema caro, perché il trimestrale diretto da Biancamaria Bruno si nutre principalmente di testi tradotti, inediti in italiano. La rivista stessa è parte di un progetto plurilingue e pluriculturale nato nel 1984 dall’idea del cecoslovacco Antonin Liehm e che ancora oggi attraversa l’Europa, grazie alla pubblicazione dell’edizione danese, rumena, spagnola, tedesca, ungherese e, appunto, italiana. La traduzione, però, non interessa le varie redazioni tra loro: ciascuna edizione opera in autonomia, i testi prescelti sono diversi, ma tutti i collaboratori agiscono nell’obiettivo comune di promuovere il dialogo tra le varie culture del mondo «attraverso la diffusione di una letteratura e di una saggistica di alto livello».
Alessandro Masi, segretario generale della Società Dante Alighieri, ha introdotto il tema della giornata presentando alcuni dati. Tra le lingue tradotte nel mondo, la nostra risulta al quinto posto. Umberto Eco, Italo Calvino, Emilio Salgari e Dante Alighieri sono tra gli autori più richiesti anche all’estero. In particolare, la traduzione di testi italiani dal 2001 al 2007 è cresciuta del 93 per cento; il che significa, però, che da 1800 titoli si è passati ancora soltanto a 3495. In ogni caso, attualmente il 9 per cento delle nostre novità è tradotto. E l’interesse per gli scrittori italiani cresce notevolmente da parte dell’Est Europa (Polonia e Ungheria soprattutto) e dell’Asia.
La direttrice della rivista, Biancamaria Bruno, forte della propria esperienza di linguista descrittiva, studiosa delle lingue del Corno d’Africa, si è soffermata sulla percezione dello stare nel mondo come dipendente dalla lingua parlata. Basti pensare ai sistemi verbali e ai diversi modi di strutturare le categorie spazio-temporali: le differenze tra le lingue si riflettono nelle differenze tra le culture e le visioni del mondo. La diversità non deve essere, però, sinonimo di intraducibilità: una strada di comunicazione tra le lingue (e gli esseri umani) esiste sempre. La bravura del traduttore si verifica nell’effetto: se un testo ci riporta allo “straniero”, la traduzione, allora, è ben riuscita; ma, se ci appare “estraneo”, qualcosa non ha funzionato.
Michele Canonica, giornalista e presidente del Comitato della Dante a Parigi, ha insistito sulla conoscenza di più lingue come strumento di arricchimento personale. In un certo senso, anche riuscire a muoversi e a comunicare agilmente in ambienti sociali differenti è una forma di poliglottismo. Dal punto di vista tecnico e letterario, ha affrontato il problema della traduzione di un testo antico (per esempio della Divina Commedia in francese) e delle tre alternative che si presentano: ricostruire la corrispondente lingua dell’epoca; rendere contemporanea la lingua della traduzione; restituire il sapore di un’epoca lontana, ma senza inficiare l’accessibilità del testo per i lettori di adesso. Secondo Canonica, Jacqueline Risset, che ha tentato quest’ultimo difficile compromesso, ha raggiunto notevoli risultati.
Infine Paolo Mauri, critico letterario e già caporedattore di Repubblica, ha approfondito il tema mettendo al centro della propria discussione l’umanità e la professionalità della figura del traduttore. Traendo spunto da alcune pagine della Vita agra di Luciano Bianciardi, Mauri ha sottolineato la durezza di questo lavoro, spesso compiuto per sbarcare il lunario, con uno stile di vita quasi monacale e ritmi a causa dei quali, soli di fronte al computer, ci si dimentica anche di mangiare. Ed è un lavoro oscuro, perché il lettore il più delle volte trascura il nome del traduttore: farvi caso e conoscerlo diventa questione di pura erudizione. Mauri stesso ha raccontato che solo in età adulta ha scoperto essere Pavese il traduttore di quel David Copperfield letto da ragazzo. Il critico ha evidenziato anche due problematiche connesse alla traduzione: l’invecchiamento e il ritardo. Le traduzioni, infatti, con gli anni fanno sorridere o si appannano: si pensi alla prassi ormai desueta di italianizzare i nomi stranieri o all’esigenza di rinnovare La Montagna incantata di Mann finanche nel titolo (oggi La montagna magica). Oppure le traduzioni arrivano in ritardo, come la Sonata a Kreutzer di Tolstoj, tradotta solo nel 1942 da Leone Ginzburg (che ne firmò, però, la prefazione, ma non la traduzione): era passato quasi mezzo secolo dal 1891 dell’originale. Sorte analoga dell’Auto da fé di Canetti, uscito a Vienna nel 1935 e per Garzanti, in Italia, nel 1967. Dopo gli anni Sessanta-Settanta, la macchina editoriale si è fatta comunque più rapida, addirittura con la programmazione, tra editori di diversi Paesi, dell’uscita contemporanea di libri originali e relative traduzioni. Mauri ha toccato, infine, la questione degli “scrittori tradotti da scrittori”, che ha dato anche nome a una collana voluta da Giulio Einaudi e che vede spesso un trasferirsi di stile. In quest’ottica può essere interpretato, per esempio, il caso di Haruki Murakami, traduttore in giapponese e scrittore dai riferimenti al mondo occidentale.

M.L.P.

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